martedì 4 ottobre 2016

Che cos'è il Belcanto? Risponde il grande Tenore Giacomo Lauri - Volpi


Giacomo Lauri - Volpi è il Duca di Mantova nel Rigoletto di Verdi
Che cos'è il Belcanto?
Risponde uno dei più grandi e acclamati Tenori di tutti i tempi: Giacomo Lauri-Volpi

 “Belcanto” - voce compilata dal tenore Giacomo Lauri-Volpi, inserita nella “Enciclopedia della musica”, ed. Ricordi, Milano 1963

BELCANTO. Per B. si intende quel genere di canto individuale che nella storia della voce umana dapprima si affidò all’espressione melodica, poi si complicò nel gusto decorativo e ornamentale, in gara con il virtuosismo degli strumenti orchestrali. Questo genere di canto poté affermarsi quando l’opera, o dramma cantato, diede rilievo a un elemento psicologico che caratterizzò il passaggio dall’età media all’evo moderno: la scoperta della individualità del personaggio nell’arte e nella vita.
Il B. è la più tipica espressione dell’individualismo canoro, che generò il divismo sulla scena lirica. Le voci umane nel medioevo avevano collaborato con gli strumenti in senso collettivo, in aggruppamenti uniformi in cui il singolo scompariva in quanto tale. Ne risultava una sorgente sonora molteplice e indifferenziata, in cui si diluivano le componenti. Nel rinascimento balza in primo piano la personalità univoca, super-differenziata del solista, al quale fanno corona coro e orchestra. Come il rinascimento è rivelazione tutta italiana di valori umanistici, anche il B. (che del resto è fiorita espressione) è arte tutta italiana. Cosa strana: in Italia la scoperta dell’individuo, la esaltazione o culto della personalità, si verificò alla fine del ‘500, proprio quando l’Italia era scomparsa come individualità nazionale e politica, cadendo sotto il servaggio dello straniero, che la ridusse un mosaico di piccoli Stati. Il fenomeno di quella scoperta è evidente in ogni aspetto della vita musicale di allora e andrà sempre più radicandosi col passaggio dallo stile polifonico allo stile omofono, dal madrigale (a più voci) all’aria a una sola voce. Quel fenomeno è, in fondo, una manifestazione, una reazione del tipico individualismo italiano.

Il B., nella sua triplice accezione verbale, è alla base della origine e della evoluzione storica della voce e del melodramma, al quale conferisce lo slancio vitale e la vera ragione d’essere. Infatti gli ellenisti fiorentini nel crearlo alla fine del ‘500, non ebbero altro scopo che il canto in sé e non già – come fu detto – la ricostruzione del dramma greco: il canto fine a se stesso, in quanto forza viva, che si regge da solo per interno impulso del sentimento e della passione soggettiva. La voce umana diventa strumento del pensiero e non ha bisogno di elementi formali contrappuntistici. Si regge, per così dire, sullo sforzo di affermare la propria personalità melodica. Donde l’origine della parola cantata, caratteristica del dramma in musica. Vale a dire, la musica si mette a servizio della parola e del canto individuale. Creatore della scuola del B. – bello perché emotivo ed espressivo, da distinguersi, come abbiamo precisato, da quello decorativo – fu il romano Giulio Caccini, che da Roma si trasferì a Firenze, ove fondò la scuola di canto in cui fiorirono le voci delle figlie Francesca e Settimia: scuola basata sulla passione profonda e la parola adeguata e sulla chiarezza della dizione in armonia con la tradizionale, romana “concinnitas”. Il “recitar cantando”, proprio di questo stile rappresentativo, portò alla libertà melodica e a un rinnovamento della tecnica del suono cantato.

Lauri Volpi in "Rigoletto" nel 1929 a San Francisco
Nel suo insegnamento, il Caccini fu un rinnovatore della ortofonia vocale e uno dei primissimi compositori di melodrammi; egli lasciò scritte interessanti norme del B. Avvertiva i discepoli di “attaccare il suono appoggiandolo sulla nota immediatamente inferiore”, oppure di “evitare questa appoggiatura e di attaccare invece la nota direttamente ma dolcemente”, come nota “tenuta” che va dal piano al forte e decresce dal forte al piano iniziale (la classica “forchetta” in uso in ogni scuola che si rispetti), di cui si è perduta ogni traccia nel canto lirico attuale, divenuto monotono e meccanico, senza sfumature di fraseggio, privo insomma della tavolozza di colori che vanno dal sussurro delle note a “fior di labbra”, ma “appoggiate”, alla vigorosa espansione dell’esaltazione lirica, che fece degli artisti dell’800 i dominatori delle scene e delle corti di tutta Europa.

Il Caccini, come “fioritura” ammetteva solo il trillo e per agevolarne l’esecuzione valorizzò il gruppetto, che è una delle forme più in uso nel canto fiorito o B. Nelle opere del Peri, del Caccini, del Monteverdi e successive (Dafne, Euridice, Arianna…) la parola declamata (recitativo) e la parola cantata si alternavano con accompagnamento del solo clavicembalo, la prima, e della rudimentale orchestra, la seconda. In quei tempi il canto non veniva sopraffatto da enormi complessi orchestrali. Senonché la voce solista incominciò, a poco a poco, ad abusare della sua sovranità, e nel ‘700, per il predominio dei soprani-maschi, il B. diventò una esibizione di licenze, gorgheggi e trilli, in cui la parola si diluiva in vocalizzi arditi e sorprendenti.

Fu C. W. Gluck (1714-87) a restituire al melodramma dignità e semplicità d’espressione canora e verbale, con l’Orfeo e con l’Alceste. “Mi sono ben guardato – egli dice – d’interrompere il cantore nel fuoco del dialogo per introdurre un noioso ritornello, o di ritenerlo sovra una vocale favorevole perché possa dar prova della nobiltà della sua bella voce o fare delle variazioni su un motivo”. Il “ritorno alla natura”, propugnato dal Rousseau, aveva sortito il suo effetto. A debilitare le posizioni dei sopranisti che avevano portato le assurdità del B. al parossismo (basti ricordare il Farinello, che con le sue meraviglie vocali guarì l’ipocondria di Filippo V e tenne in vita Ferdinando IV di Spagna) intervennero la Benti-Bulgarelli, la Matrilli, la Priori nel ‘700, la Bertinotti e la Malibran nell’800. La quale gareggiando a Londra col sopranista Velluti, inflisse a questi una sconfitta memorabile. Con l’avvento dei “diritti dell’uomo” anche quelli vocali della donna vennero rispettati. Si videro, finalmente donne in abiti femminili cantare nei teatri le parti di donna, e con la stessa abilità di vocalizzi, variazioni, trilli e gorgheggi, che erano sembrati fino ad allora, una esclusività delle voci evirate. Ma anche la Malibran, e, dopo di lei, la Grisi e la Patti, abusarono delle loro eccezionali facoltà. La prima giunse al punto di introdurre in una data opera, brani di altre opere dello stesso autore o addirittura di altri autori. La mania di gareggiare con il violino, il flauto, l’oboe, è tuttora in voga nelle opere in cui il soprano leggero può sbizzarrirsi a piacimento nella cadenza finale di un’aria. (La scena della pazzia nella Lucia di Donizetti). Famosa la gara a chi meglio improvvisasse, tra la Malibran con la voce e Thalberg con il pianoforte. Gioacchino

Rossini riuscì in parte a rimediare agli eccessi e agli arbitrii del B.

Con Wagner e Verdi la parola e la poesia riacquistarono la loro importanza. Ma, fin da Bellini, testo e musica si compenetrarono in guisa da non permettere che l’uno prevalesse sull’altra. Nella Norma, poniamo, il canto e la parola si equilibrano creando una melodia quasi perfetta di pensiero e di suono. In Bellini il vero B., immune da abbellimenti fuori posto, si snoda in frasi miracolose e trasporta l’anima dell’ascoltatore sensibile alla sublime sfera dell’assoluto. Basterebbe la corretta esecuzione di “Casta diva” (l’aria che contiene le più lunghe frasi melodiche che siano mai state scritte) per dare un’idea di ciò che s’intende per autentico e inconfondibile B. italiano: canto che dovrebbe essere di tutti i tempi, per la sua etica ed estetica nobiltà. Ma per eseguirlo occorre lo strumento vocale idoneo ad esprimere tutti i sentimenti dell’anima e le emozioni che, già provate dal compositore di genio, si trasfondono nello spirito dell’interprete avvezzo a scavare in profondità. Allora si comprende che sotto questo aspetto il B. è manifestazione del divino e la melodia non è il capriccio di note arbitrarie, ma il frutto di ispirazione, di cui lo stesso compositore si sorprende, dopo averla seguita e fissata in note.


Riassumendo, possiamo considerare il B. sotto i tre aspetti: classico o melodico (periodo iniziale, nel ‘600); virtuosistico per abbellimenti, capricci, ornamenti, variazioni, improvvisazioni (nel ‘700, periodo rococò); romantico, in cui si alternano la linea melodica e il superstite virtuosismo delle prime donne e dei primi tenori nell’800. Il B. vero è classico e romantico a un tempo, includendo ragione e sentimento, misura e calore, linea melodica e slancio poetico.

LETT. -
M. Kuhn, “Die Verzierungskunst in der Gesangs-Musik des 16.-17. Jahrhunderts”, 1902;
V. Ricci, “Il B.”, Milano 1923;
H. Klein, “The B.”, Londra 1923;
A. Della Corte, “Canto e B.”, Torino 1934;
L. Siotto Pintor, “Segreti del B.”, Milano 1938;
A. Machabey, “Le B.”, Parigi 1948;
J. Laurens, “B. et émission italienne”, Parigi 1950;
Ph. A. Duey, “B. in its golden age”, New York 1951;
R. Maragliano Mori, “I maestri del B.”, Roma, 1953;
Rossi della Riva, “Aclaraciones sobre la escuela italiana del B.”, Buenos Aires 1955;
U. Valdarnini, “B.”, Parigi 1956;


G. Lauri-Volpi, “I misteri della voce umana”, Milano 1957; “Gli otto punti essenziali del sistema del B.”, in “Santa Cecilia”, Roma aprile 1960 p. 92-102; O. Merlin, Le B., Parigi 1961


giovedì 2 ottobre 2014

Beniamino Gigli e la voce che "cammina"


"La voce di Gigli fu eccezionalmente portante, benché il suo volume non fosse grande" (.....)
In queste occasioni anche gli ascoltatori seduti agli estremi angoli della sala potevano sentire il suo canto senza difficoltà"...


Cari amici, questa bella frase lascia intendere quale sia il reale problema che affligge il Canto dei nostri giorni: si tende sempre più a scambiare la cosiddetta "voce che viaggia" o "voce che cammina" o per dirla nel vecchio gergo "voce in punta" con la spinta di forza. Mettetevelo in mente: una voce larga e grossa priva di armonici  (che non risuona nei punti giusti) avrà sempre un timbro aggressivo, tenderà a storpiare la Musica e prima o poi arrecherà danno all'urlatore di turno. Viceversa, anche una voce "piccola" ma "ben messa" (cito le parole dei miei Maestri), viaggerà molto bene a bucherà fino ad arrivare nell'ultimo nascosto angolino recondito dei Teatri. 




(Ringraziamo il sito http://www.beniaminogigli.it/la-voce-di-gigli.html). Quindi carissimi Studenti di Canto, non cedete alle  facili tentazioni di fare una voce grossa e robusta; cercate invece di proiettare i suoni in modo che possano essere prodotti SENZA SFORZO e con la massima morbidezza.

Un saluto cordiale a tutti! 




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domenica 21 aprile 2013

I Gorgheggi e Solfeggi di Rossini nell'edizione del 1827

Cari Belcantisti,
oggi "Belcanto Italiano Itinerant Academy" offre i celeberrimi "Gorgheggi e Solfeggi" di Gioacchino Rossini nell'Edizione a Stampa del 1827.

Riportiamo il frontespizio integralmente:


Gioacchino Rossini

Gorgheggi e Solfeggi
Vocalises et Solfèges
pour rendre la voix agile
Pour apprendre à Chanter selon le goût moderne

PAR ROSSINI
adaptés à l'Académie de Musique dirigée par

J. H. MEES

Propagateur de la Mèthode du Méloplastel,
et de celle de Choron, dans le Royaume des Pays Bas.

Prix 2 fr. 50

Bruxelles, Phil. Lippens, 1827



E di seguito la premessa agli Esercizi:


Ces EXERCICES, sont très nécessaires pour rendre la voix agile. Il faut les
exécuter chaque matin, La première fois lentement et Piano,
La deuxième fois vite et Piano,
La troisième fois, très vite et très fort.

<<Questi esercizi sono necessarissimi per rendere la voce agile. Bisogna eseguirli
ogni mattina: La prima volta lentamente e Piano,
la seconda volta presto e Piano,
La terza volta prestissimo e fortissimo>>


(Trad. italiana secondo l'Edizione Ricordi)


Forse quest'indicazione dovrebbe far riflettere moltissimi studenti e Cantanti che affermano che la mattina non si possa cantare...


Si nota subito che Rossini fa cominciare il cantante con vocalizzi a note lunghe tenute con la "messa di voce" per il controllo del fiato e ottenere un bel suono vocale, e poi, per passare alle agilità, fa iniziare saggiamente il cantante con gradi congiunti e piccoli salti, assolutamente all'opposto dei classici vocalizzi di base che si sentono fare attualmente nei Conservatori e persino fuori prima dei concerti. Questi vocalizzi rossiniani sono davvero un ottimo modello per tornare al nostro Bel Canto!

Un saluto cordiale a tutti i Belcantisti o aspiranti Belcantisti
Astrea Amaduzzi - www.belcantoitaliano.com

venerdì 2 novembre 2012

Cos’è il Belcanto? - Di Angelo Fernando Galeano

Inauguriamo il blog "BELCANTISMO" con le parole di un eccellente Controtenore, attento e raffinato esperto di Tecnica Vocale, vivace studioso della Storia della Musica e bravo scrittore; l'autore del testo che segue è il Controtenore Angelo Galeano che oggi festeggiamo come carissimo amico Belcantista.

Buona lettura a tutti!



Cos’è il Belcanto? - Di Angelo Fernando Galeano

Oggi su canali televisivi poco informati si parla di Belcanto per indicare il canto operistico tout-court, i musicologi tendono invece a identificare il Belcanto come un periodo netto di produzione operistica più o meno riconducibile a quello a cavallo fra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo, per dare dei riferimenti, un po’ vaghi a dire il vero, da Mozart al Verdi della cosiddetta Trilogia Popolare, abbracciando l’intera produzione di Rossini, Bellini, Donizetti, per citare i più noti, e tutti i loro coevi.

Ma cos’è realmente Belcanto? Il Belcanto è uno stile vocale, un insieme di pratiche tecniche e stilistiche tramandate per generazioni e pressoché defunte nella seconda metà dell’Ottocento. Si può dire in soldoni che il Belcanto sia un modo di cantare.

Analizzando la parola si ricava che al momento della nascita di questo stile, o meglio della sua codificazione scritta in importanti trattati, fosse diffusa anche un’abitudine vocale meno raffinata, da qui l’esigenza di definire questo stile vocale “bello”, da cui Bel Canto, indi Belcanto.

Ma come nasce lo stile vocale poi denominato Belcanto?

L’epoca Barocca ha estremizzato e portato al massimo splendore il canto, e piena realizzazione dell’estetica dell’epoca si è compiuta spingendo verso l’estremo la vocalità, pretendendo sempre nuovi effetti e un’estensione e una perizia tecnica sempre più ampie forzando così la mano alla Natura e dando origine al fenomeno della castrazione, talmente di successo da essere esportato dal campo della musica sacra a quello della musica profana e del Teatro d’Opera, dove deflagrerà senza controllo.

 Un’espansione vocale di simile portata ha creato i presupposti per una tecnica di canto molto più “atletica” di quella operistica originaria, al tempo della Camerata dei Bardi e di Monteverdi per intenderci, che era sicuramente piu giocata sulla naturalezza della voce quasi come fosse un parlato intonato, il recitar cantando appunto. I grandi Castrati del Settecento affinarono questa tecnica con esercizi di respirazione, studio del legato, delle agilità, raggiungimento di estensioni per l’epoca prodigiose, e piegando tutti questi fattori al raggiungimento di una peculiarità della vocalità Settecentesca che sarà l’omogeneità timbrica in tutta l’estensione, e la completa astrazione della voce cantata dalla voce parlata.

Nel Belcanto non esiste l’idea di verosimile, la vocalita e il timbro non devono assolutamente essere in linea con il carattere e anche il sesso del personaggio, il grande eroe o l’innamorato come Giulio Cesare, Arsace, Tancredi, Romeo, sono interpretati da castrati soprano o contralto, o da donne quando la pratica della castrazione non sembrerà più cosa opportuna, e l’unione perfetta delle anime e delle voci si ottiene mediante il canto all’unisono finale, o il melodioso canto per terza o per sesta, e giammai in finto unisono in ottava come soprano e tenore nell’opera tardo ottocentesca e poi verista, fino a Puccini che di tale sonorità ha fatto caratteristica peculiare dei propri duetti d’amore.

 Vietato l’uso del cosiddetto “registro di petto” , se non per l’effettone teatrale, vietato l’uso del realismo nella voce, se un personaggio piange il suo dolore canta il suo pianto ma non piange, se urla di dolore canta il suo urlare ma non urla, se scaglia fulmini di odio e rancore canta il suo odio e rancore con note adeguatamente composte ma non urla mai il suo furore, lo canta.

 Questa pratica vocale, definitivamente e in modo assai incompleto codificata solo in epoca ormai tarda nel 1840 da M. Garcia nel suo Traité complet de l’art du chant dopo decenni di tradizione orale e passaggio di consegne da allievo a maestro, morirà con l’avvento del realismo nel teatro musicale, la corrente artistica del Romanticismo spazzerà via questo stile in favore di uno più teatrale dove non sarà più “prima la musica e poi le parole”, per dirla con Salieri, ma prima il teatro, il personaggio, la recitazione, e si darà il la definitivo all’avvento della vocalità verista, vera tomba dell’arte del Belcanto, dove l’estetica vocale sarà esattamente l’opposto, ampia pratica del canto “di petto” per rendere la voce sempre più simile a quella parlata, ampio spazio a urla, gemiti, e ogni effetto che possa muovere a commozione il pubblico, in uno spettacolo in cui ormai la musica è un pretesto per mettere in scena un testo drammatico e non più il testo drammatico un pretesto per mettere in scena della musica meravigliosamente scritta e cantata.

Altro effetto della morte della tecnica del Belcanto è il progressivo inspessimento delle voci, la riduzione drastica e pressoché inevitabile dell’estensione, e la perdita di precisione nel canto di agilità, tutte conseguenze ascrivibili alla mancanza di perizia tecnico-atletica della nuova scuola di canto, alla sostituzione della respirazione diaframmatico costale con quella addominale, alla perdita delle conoscenze in termini di cavità di risonanza e di uso dei registri vocali.

 Potrei dire della causa principale della scomparsa della tecnica belcantista con parole mie ma preferisco affidarmi a quelle di un mio mito, Gioacchino Rossini, che nel 1860 sostenne con uno scettico e supponente Richard Wagner una conversazione sul tema, riferita parola per parola da Edmond Michotte, fautore dell’incontro fra il grande Maestro a riposo e il compositore tedesco a Parigi nel tentativo di far rappresentare il suo Tannhäuser.

 Rossini nel mezzo della conversazione parlando della sua carriera in Italia (finita nel 1823 con Semiramide) sostiene che le condizioni dei teatri in Italia all’epoca lasciavano abbastanza a desiderare ed erano in piena decadenza, così come l’arte del canto era in declino.

 Wagner: “A cosa attribuisce un fenomeno tanto inatteso in un paese dove le belle voci abbondano?”

Rossini: “Alla scomparsa dei castrati!. Non si può immaginare come siano affascinanti la voce e il consumato virtuosismo di cui sono dotati, in mancanza di altro e per generosa compensazione, questi bravi fra i bravi. Erano anche maestri incomparabili. In genere veniva affidato loro l’insegnamento del canto nelle cappelle musicali collegate alle chiese e da esse mantenute. Alcune di queste cappelle erano celebri. Erano vere accademie di canto. Gli allievi vi accorrevano numerosi e molti di essi abbandonavano spesso la cantoria per intraprendere la carriera teatrale. In seguito al nuovo regime politico instaurato in Italia dai miei irrequieti compatrioti, le cappelle musicali furono sostituite da qualche conservatorio dove, in materia di buone tradizioni del bel canto non si conserva un bel niente ( si noti il gioco di parole ).

Quanto ai castrati, scomparvero e si perse l’abitudine di crearne di nuovi. È questa la ragione della decadenza inarrestabile dell’arte del canto.”

  E non posso che essere pienamente concorde con lui.




Questo articolo, tratto dal sito del Controtenore Angelo Fernando Galeano che ringraziamo vivamente, verrà anche pubblicato sul  Blog dedicato al Belcanto Italiano